La montagna merita rispetto?

13 Gennaio 2022

Questo che leggerete è, più che altro, uno sfogo personale contro la maggior parte degli attori della montagna, me compreso, che in modo diverso ha contribuito e continua a contribuire all’imbruttimento delle Alpi, indirizzandole su un sentiero senza ritorno. Uno sfogo, inoltre, per farci riflettere su come ci comportiamo quando siamo turisti.

Sabato mattina, dopo essere rimasto bloccato nel traffico di automobili che dopo le vacanze natalizie rientravano in pianura dalle località turistiche della mia provincia, mi è tornato in mente lo slogan “La montagna merita rispetto”. Lo ricordate anche voi?
Era stato usato lo scorso anno dagli imprenditori dello sci e dalla filiera del turismo montano – appoggiati dalle aziende turistiche e dai politici locali – per protestare contro il governo e il ministro Speranza che, a causa dell’avanzare della pandemia, avevano prorogato la chiusura degli impianti sciistici a poche ore dalla riapertura.
La stagione invernale poteva considerarsi chiusa prima ancora di cominciare, con danni economici gravi per gli operatori del settore e per l’indotto, e così, a quel punto, chiunque avesse a che fare con le terre alte – abitante, lavoratore stagionale, turista, proprietario di seconda casa o semplice simpatizzante – aveva usato questo slogan, in molti casi sostituendolo all’immagine del proprio profilo social. Ricordate anche questo?

Bene, provando allora a non essere troppo provocatorio, mentre viaggiavo a passo d’uomo verso il valico di quasi 2300 metri che soltanto due ore più tardi mi avrebbe permesso di arrivare a fondovalle, mi sono chiesto: ma la montagna merita davvero rispetto? E da parte di chi?
Lo merita forse dai suoi abitanti, dai suoi operatori del turismo e dai suoi amministratori, la maggior parte dei quali negli ultimi trent’anni l’ha sfruttata sotto ogni aspetto per fare cassa, inseguire la crescita e ottenere conferme elettorali, fregandosene dell’ambiente naturale che invece dovrebbe sempre rappresentare un forte limite a tutti gli interventi dell’uomo nelle valli alpine?
O lo merita forse dai turisti o dai proprietari di seconde case che nei weekend e durante le festività si spostano in quota come vacche durante la transumanza, la maggior parte dei quali chiede e pretende gli stessi servizi, intrattenimenti, modernità e comodità della città, trattando tuttavia la montagna come un qualsiasi oggetto del consumismo, da usare e poi da buttare?
O lo merita forse dagli intellettuali della montagna, la maggior parte dei quali riapre le baite a Ferragosto e Capodanno, scala pareti di roccia o ghiaccio nei fine settimana e in generale vive l’alta quota a piccole puntate riempiendo però l’aria di teorie che vorrebbero salvare il presente e il futuro delle Alpi, spesso senza sapere che odore ha il letame sparso nei prati in autunno, quale può essere lo stato d’animo di chi resta in valle persino a novembre, che sapore ha la primavera quando la neve resiste fino a giugno e che cosa si prova a vivere un inverno lungo sei mesi, feriali compresi?

La montagna, credo, non merita il rispetto di nessuna di queste persone. Perché il rispetto per la montagna – ripeto, per la maggior parte dei suoi frequentatori, non per tutti – non è più un valore.
Il rispetto è stato sepolto da valanghe di cemento, di retorica, di attività ludiche assurde, di globalizzazione travestita da progresso nostrano, di folclore mascherato da storia locale, di eventi impattanti e fintamente rispettosi dell’ambiente, fatti questi quasi sempre causati da iniziative dei suoi amministratori, operatori, abitanti, turisti e intellettuali, appunto.

In ogni caso, oltre alla critica e al pessimismo, anche in me resiste qualche speranza per il futuro delle Alpi, diversa per ognuna delle quattro tipologie di montagna che mi vengono in mente mentre scrivo queste riflessioni: la montagna delle località più alla moda e frequentate in ogni stagione turistica; la montagna delle località che si riempiono soltanto in agosto, Natale e Pasqua; la montagna dei borghi quasi del tutto spopolati, che piano piano stanno crollando su se stessi; la montagna nuova, quella fatta di valli selvagge e poche case, rivista e ripensata su modelli già esistenti, come l’esempio della Val Maira citato spesso (di cui ho letto molto ma che, personalmente, non ho mai visto).

La prima e la seconda montagna, a mio modo di vedere, sono compromesse e irrecuperabili. Qui non si parla più di paesi di montagna, bensì di paesoni e cittadine con le montagne intorno, in cui il territorio è stato sottomesso al turismo di massa o alle seconde case, tra l’altro quasi sempre disabitate. Lassù, in quei luoghi, si dovrebbe lottare per salvare il salvabile, ossia per tutelare le valli interne rimaste tuttora estranee allo sviluppo, prima che qualche amministratore ci metta mano in nome del triste dogma “mantenere il passo dei competitor”.
La terza e la quarta montagna sono invece quelle sui cui lavorare a fondo, sempre che si riesca a trovare l’appoggio di politici davvero lungimiranti e aziende turistiche che non vogliano fare prima di tutto un business plan per valutarne le potenzialità. Naturalmente qui si parlerebbe di turismo lento e di tutti i valori a esso collegati, e che molti amanti della montagna auspicano da tempo; un qualcosa di rivoluzionario, confortante e incoraggiante, almeno se fatto in più luoghi possibile, magari risistemando e riqualificando piccole frazioni che ben si prestano a un simile modello.

Tuttavia, esiste una quinta tipologia di montagna: quella ideale, che personalmente apprezzerei più di tutte. La montagna alla quale non interessa avere né il turismo lento né tantomeno il turismo di massa, e che ambisce a essere un luogo di pace assoluta, di silenzi e natura a comandare sopra ogni cosa, autosufficiente, semplice, non assoggetta alle mode o sottomessa a eventi. Una montagna libera di essere semplicemente se stessa, senza artifici.

Ma, ahimè – torna il pessimismo! –, a quanto pare è più facile distruggere che ricostruire, pensare all’immediato che al medio e lungo termine. Così, sperare che in montagna si fermi la catastrofe della modernità e del marketing, è forse un sogno che in pochi hanno ancora voglia di sognare.
Per questo mi sono posto la domanda che dà il titolo a questo post. Una domanda che, a pensarci bene, forse andrebbe modificata: la montagna vuole il nostro rispetto? Soprattutto, crede ancora che possiamo rispettarla come promettiamo da decenni?

(La fotografia che accompagna il post è di Enzo Bevilacqua ed è tratta dalla pagina Facebook di Livigno is magic)