L’homo salvadego

29 Novembre 2021

Quando avevo visitato il museo di Sacco in Val Gerola durante il mio viaggio a piedi in Valtellina, avevo potuto ammirare per la prima volta, in religioso silenzio, l’affresco dedicato all’homo salvadego nella camera picta di una vecchia casa del centro storico.
E alcuni giorni fa, dopo più di due anni, l’homo salvadego è tornato a farmi visita grazie a una chiacchierata con Federico Quaranta per il programma televisivo Il Provinciale, che andrà in onda sabato 11 dicembre 2021 alle ore 14:00 su Rai Due e che si è occupato di aspetti meno noti della Valtellina.
Ho così ripensato a questo uomo primitivo tanto presente nella nostra tradizione e in generale in quella alpina, un po’ leggenda e un po’ realtà, una figura complessa che non va ridotta a un semplice montanaro barbuto rifugiatosi nei boschi e con una clava tra le mani, né a una storia cupa nata per spaventare i bambini.

Dettaglio dell’affresco nella camera picta di Sacco (SO)

Lo sappiamo bene quando camminiamo in montagna, quando i nostri passi superano sentieri, boschi, creste e cime: l’homo salvadego è dentro di noi, nel cuore e nella mente. È il nostro altro, è il nostro animo in chiaroscuro, è il nostro senso primitivo che comunica con la natura, che ci mette in piena sintonia con essa e dove si proiettano tutti quei sentimenti ambivalenti di minaccia e serenità.
Perché il chiaroscuro del paesaggio alpino ti pone continuamente di fronte all’enorme bellezza, alla libertà e al piacere assoluto che c’è nello stare in montagna, ma dall’altro lato ti mette in contatto con l’inaudito, l’infinito, l’ignoto e la crudeltà della natura, che spesso fa paura e trasmette una grande inquietudine.

In ogni caso, l’homo salvadego non è così ignorante o rozzo come si può credere di primo acchito; non è scappato dal paese perché incapace, sprovveduto, ingenuo o poco intelligente per vivere con gli altri.
L’homo salvadego ha fatto dell’isolamento una scelta precisa, presa in piena coscienza e libertà, usando eccome la propria intelligenza, addirittura forse più marcata rispetto agli uomini cosiddetti civili: si è allontanato dai suoi simili perché non ne condivideva i valori e ha trovato nella natura selvaggia il suo scopo di vita.
L’homo salvadego ha imparato a sopravvivere senza fatica nella durezza dell’ambiente montano coltivando i campi, allevando gli animali, praticando l’apicoltura, l’arte casearia, l’arte dell’estrazione e della lavorazione dei metalli e dell’artigianato; e ha sfruttato queste sue capacità e le risorse della natura non per trarne profitto, come invece abbiamo fatto noi uomini civilizzati nell’epoca moderna per scopi il più delle volte privi di virtù, bensì per vivere in piena simbiosi con essa, alla continua ricerca del miglior equilibrio e del massimo rispetto.

Panorama autunnale in Engadina

Ecco, forse è proprio questo l’insegnamento che oggi dobbiamo trarre dalla tradizione valtellinese dell’homo salvadego, anche in riferimento ai drammi climatici e ambientali che stiamo vivendo e che vivremo nostro malgrado nei prossimi decenni: ripensare finalmente i rapporti con la natura, senza continuare a sfruttarla, a dominarla, a farla nostra.
Così come l’homo salvadego quando si è rifugiato nei boschi, anche noi dobbiamo riscoprire il senso del limite e dell’essenzialità delle cose, della condivisione e della semplicità. Perché in fondo, se ci pensiamo bene, abbiamo dimenticato un concetto fondamentale alla base dell’esistenza: siamo noi gli ospiti della montagna e dell’intero pianeta, non i padroni.

Breve estratto dal libro Il mio viaggio in Valtellina:

La stanza in cui entrai era vuota, non c’era nemmeno un mobile ad abbellire l’ambiente. Allo scopo, bastava lo spettacolo dell’affresco, capace di far tenere lo sguardo incollato alle figure rappresentate, ai colori utilizzati e alle scritte in latino e in italiano, perlopiù di carattere moralistico, che si vedevano tra le immagini.
L’abitazione era stata la proprietà di un notaio della zona ed era stato lui, nel XV secolo, a commissionare l’opera ad alcuni artisti bergamaschi. Tra l’altro, fino a qualche decennio prima, la camera era stata usata come fienile, ma fortunatamente la superficie intonacata e affrescata delle pareti non era stata intaccata.
Come altre camere decorate nello stesso periodo, anche quella di Sacco aveva fregi floreali e preghiere con proverbi, oltre alle figure di un cacciatore, di una grande Pietà con San Bernardo, del committente dell’affresco – raffigurato in posa genuflessa – e di un uomo nudo completamente coperto da una peluria ispida, che stringeva tra le mani una lunga clava in legno.
Era lui l’uomo selvatico, al cui lato, all’altezza della folta capigliatura e di un viso tutt’altro che spaventosi, spiccava la famosa scritta: “Ego sonto un homo salvadego per natura chi me offende ge fo pagura”.

(La fotografia di copertina che accompagna il post è tratta dal blog Amo la Valtellina, mentre quelle all’interno del testo sono tratte dalla rete – la prima – e scattata da me – la seconda)