Ripopolare la montagna

10 Maggio 2022

Davvero il turismo dolce è la ricetta per salvare, o salvaguardare, la montagna? È una domanda che mi faccio da qualche tempo e la risposta è: non ne sono sicuro.

Come altre persone, anche io ho sempre pensato che il turismo dolce (c’è chi lo chiama lento) abbia parecchie virtù, senz’altro molte più del turismo di massa, che al contrario è portatore di vizi e disastri.
Tuttavia, non credo che alla lunga sposare il turismo dolce serva a proteggere la montagna, dato che anche questo approccio lascia tracce dannose sul terreno e rende comunque difficile il controllo dei flussi turistici, né tantomeno può essere una soluzione percorribile per quelle località che hanno sfondato il limite dello sfruttamento del territorio e sono assoggettate al turismo di massa.
E poi, come chiedevo in un post provocatorio di alcune settimane fa, la montagna merita davvero rispetto, di essere salvata? E da chi, poi?

In ogni caso, leggendo le opinioni pubblicate negli anni sul sito internet di Cipra International (l’ente autonomo nato nel 1952 che promuove l’incontro tra persone e organizzazioni impegnate nello sviluppo sostenibile delle Alpi) e in base alla mia esperienza di individuo nato e cresciuto nelle terre alte, sono consapevole che il modello perfetto di turismo non esista. Mi viene però in mente che una cosa buona da fare potrebbe essere quella di smettere di porre il turismo al centro di ogni scelta.
Di conseguenza, se vogliamo davvero proteggere la montagna dall’assalto o dall’abbandono, perché non percorrere un’altra via, valida per i paesi, borghi, frazioni, contrade o valli non ancora toccati in maniera rilevante dalle politiche turistiche? Perché non incentivare la ripopolazione seria di questi luoghi (senza nuove costruzioni, bensì con ristrutturazioni sensate) a favore di persone che ci andrebbero a vivere in paesi, borghi, frazioni, contrade o valli, e che lo farebbero per lungo tempo?
Queste ultime sarebbero uomini e donne che trasferiscono coscientemente le loro vite con il lavoro e la famiglia, scegliendo la pace, il silenzio, la natura, l’assenza di traffico e un’esistenza sobria slegata dalle abitudini del fondovalle, anche se non isolata dal fondovalle; una vita da vivere ai margini della globalizzazione e del consumismo, ma che inevitabilmente farebbe parte della società e dell’economia occidentale stessa che, lo vogliate o no, continueranno a esistere, perché altrimenti crollerebbe tutto il sistema.
Magari, in questo modo, in paesi, borghi, frazioni, contrade o valli rifiorirebbero il senso di comunità, i lavori artigiani, i piccoli commercianti, i servizi alla persona, la cultura e una maggiore cura dell’ambiente, troverebbero nuova linfa i contadini e gli allevatori che ancora resistono e le nuove tecnologie (quelle davvero utili, per esempio per la produzione di energia pulita) aiuterebbero nella gestione del lavoro e nell’economia domestica, mentre internet permetterebbe di restare connessi alle città e al resto del mondo. Se poi, come effetto della rinascita di un luogo e non come obiettivo finale, verrà anche un po’ di turismo sano, limitato, controllato e (oserei dire, anche se irrealizzabile) selezionato, tanto meglio.

Senza alimentare la corsa alle terre alte, che sarebbe anch’essa deleteria, non può essere questo un modo per ridare futuro ad alcune zone? Semplicemente vivendole ogni santo giorno e non solo nei weekend, in agosto o durante le festività? O preferiamo aspirare al turismo dolce come unica soluzione per contrastare lo spopolamento e il degrado, o inseguire la riqualificazione, di tanti, troppi paesi, borghi, frazioni, contrade o valli?
Anche perché, per i luoghi già conosciuti come per quelli sconosciuti, c’è il rischio dell’ulteriore proliferare del turismo del selfie e della natura influencer, alimentati dai social network con bellissime immagini spesso postate dalle aziende turistiche, in modo da promuovere su larga scala località che poi si trovano a fare i conti con folle di maleducati, spazzatura ovunque, piante calpestate, animali selvatici spaventati, parcheggi selvaggi, inquinamento acustico, invasione degli spazi, baite deturpate.
Come chi, credendo sinceramente di proporre qualcosa di costruttivo, ha partorito e pubblicizzato ponti tibetani da attraversare, panchine giganti da scoprire, laghetti verdi da visitare, punti di osservazione di selvatici, piatti gourmet da degustare in rifugio e altro ancora, salvo poi rendersi conto di quanto sia travolgente questo modo di fare e subire turismo.
Sì, qualcuno è in grado di gestire il numero di visitatori nelle aree sensibili, ma c’è ancora molto lavoro da fare. E, forse, più che postare fotografie da favola, le aziende del turismo dovrebbero scoraggiare determinati comportamenti, magari usando lo stesso mezzo per postare invece immagini di parcheggi traboccanti, cime sovraffollate, sentieri trafficati all’inverosimile, ristori presi d’assalto e valanghe di rifiuti (tutte cose che chiunque vede in montagna).

Certo, non solo i turisti lasciano tracce sul terreno, perché anche i residenti lo fanno. Però loro, la montagna, la vivono appieno, la soffrono, la amano e se ne prendono cura. Per questo hanno più diritto di altri di parlarne e di difenderla. In fondo, è quasi sempre dai palazzi del fondovalle e dagli amministratori locali asserviti a essi che arrivano i guai e le distorsioni, con decisioni che tendono a rendere la montagna un prolungamento della città.
Ecco perché, probabilmente, il turismo andrebbe resettato. Perché non è ancora stata colta l’opportunità di avviare scelte che diano la priorità a chi già abita o a chi vuole abitare la montagna. Ed ecco perché la montagna ha così tanto bisogno dei suoi abitanti, prima che dei suoi turisti.

(Le foto che accompagnano il post sono mie e sono state scattate in Media Valtellina)