3. Sul fuoco. Diario dalle Valli del Bitto

26 Ottobre 2021

Martedì 31 agosto 2021

Ancora nel dormiveglia, con una luce arancione che entra dalla finestra e mi irradia le palpebre, sento vestirsi Erica, Manu e Martina, lavarsi a turno in bagno, raccattare gli attrezzi del mestiere e avviarsi dalle vacche per la mungitura della mattina, più ricca e lenta rispetto a quella del pomeriggio.
È proprio questo il latte, al quale va aggiunto circa il dieci per cento di latte di capra, che servirà per la forma odierna di Storico Ribelle.
Dopo essermi alzato e sistemato a mia volta, seguo il sentiero per raggiungere i ragazzi poco più in alto e mi tornano alla mente le immagini della terra rivoltata nei pascoli qui attorno, segno del passaggio di cinghiali che, di notte, salgono dalle valli vicine a caccia di cibo.
“Cipolline” le ha chiamate Manu ieri sera, quando gli ho chiesto spiegazioni. “Sono grandi così” e ha fatto un cerchio con le dita grande come una pallina da ping pong. “È un disastro…” ha concluso. “E se nessuno semina, il prato mica ricresce da solo. L’anno prossimo sarà ancora così.”

L’Alpe Piazza e, sullo sfondo, la Bassa Valtellina

Mentre munge senza staccare gli occhi dal secchio, Erica mi racconta di un ragazzino di pianura che è stato da loro pochi giorni fa, intenzionato a vivere l’esperienza in alpeggio l’estate prossima.
“È venuto con il padre. Voleva capire come funziona la vita quassù.”
“E com’è andata?”
“Prima di tutto è arrivato con il buio, anche se gli avevo ripetuto di salire entro tardo pomeriggio” risponde lasciando per un attimo la presa delle mammelle della bruna alpina. “Poi si è diretto al bivacco e subito mi ha telefonato per lamentarsi che non c’era il bagno, quando lo avevo già fatto presente più volte. E non è tutto! Pensa te che eravamo d’accordo che si sarebbe alzato per la munigitura, per provare, invece si è presentato a mezzogiorno. Allora ha girato un po’ qui intorno a vedere le stanze, la cantina, il bagno e le capre, sempre accompagnato dal padre, ma appena ha capito l’andazzo ha salutato ed è sparito. Ecco com’è andata.”
“Mi sa che non viene l’anno prossimo, eh?” sorrido.
“Mica è un agriturismo di lusso, questo, o un rifugio a quattro stelle!”
“Probabilmente non aveva idea di come girano le cose in montagna” provo a dire.
“Beh, io comunque non l’avrei preso, questo è sicuro. Ho già abbastanza da fare, mi manca solo di correre dietro a un ragazzino…”
Nel frattempo ho perso di vista Manu e Martina. Le vacche sono distanti una dall’altra, sparse per l’alpeggio e mimetizzate tra sassi, alberi e mughi, così impiego diversi secondi a individuarli.
Sia Manu, sia Martina sono un tutt’uno con la vacca che stanno mungendo, sembrano quasi una sua sporgenza. Hanno la fronte che sfiora la pancia dell’animale, sono seduti sul tipico sgabellino a una gamba e le loro mani vanno su e giù con un ritmo preciso, delicate ma decise, mentre tra i piedi stringono il secchio del latte.
In sincronia ci voltiamo verso valle, attratti dal suono delle campanelle: dal bosco compaiono le capre di ritorno dalla notte passata al pascolo, in perfetto orario per la mungitura.
“Ci sono sempre tutte?” chiedo a Manu.
“Fino a oggi, sì” risponde in parte in dialetto e in parte in italiano. “Orsi non ce ne sono, anche se dicono che c’è una lupa con i cuccioli. Ma io non l’ho mai vista…”

Manu durante la mungitura

A colazione, servito in una ciotola di legno, bevo il latte appena munto e dentro ci inzuppo i biscotti. Il suo sapore intenso mi riporta all’infanzia, a una piccola stalla dove ogni tanto, prima di cena, la nonna mi mandava a ritirare il bidoncino del latte appeso a un chiodo.
Erica, iniziando a sparecchiare la tavola, interrompe i miei ricordi di bambino e mi riporta al presente annunciando che, se voglio vedere l’intera lavorazione, è tempo di andare a fare il formaggio.
La seguo in casera e lei, per prima cosa, va alla caldera già sul fuoco per ripulire il latte dalla pelle formatasi in superficie. Poi, quando arriva a una temperatura di trentasette gradi, il latte riposa circa mezz’ora e la caldera è tolta del fuoco.
La cagliata è pronta, anche se prima, con la delicatezza di uno chef stellato che impiatta, Erica elimina alcune impurità rimaste nel liquido e solo quando tutto è in ordine può tagliare una prima volta la cagliata in modo grossolano.
Mentre nel camino il fuoco scoppietta vigoroso, alimentato con grossi ceppi di legna, Erica lava il tavolo spersoio, sul quale lavorerà la pasta di formaggio. Nella caldera c’è circa un quintale di latte di vacca e di capra, una quantità sufficiente per una forma di Storico Ribelle da dieci o dodici chilogrammi.
Ora è il momento di rompere la cagliata con la lira ed Erica lo fa con un movimento circolare delle braccia sempre più veloce, in modo da ottenere chicchi di riso di grandezza omogenea e, nel contempo, facilitare lo spurgo del siero.
È un lavoro paziente e quasi ipnotico, anche se non ci si può incantare. Il controllo deve essere costante, fatto a vista e manualmente: di tanto in tanto Erica affonda le mani nel liquido e prende una manciata di chicci, valutando se vanno bene oppure no, se hanno raggiunto la misura adatta o se c’è bisogno di altri muscoli e maggiore velocità.
Quando la grandezza dei cicchi la soddisfa, è tempo di spingere di nuovo la caldera sul fuoco; la solita scia di fumo nero invade la stanza, dato che il camino ha problemi di tiraggio, ma come se nulla fosse Erica ricomincia a mescolare finché il liquido arriva a cinquanta gradi; dopodiché toglie la caldera dal fuoco, mescola ancora e lascia riposare per un’altra mezz’ora.

Martina riempie la brenta di latte ancora caldo

La parte solida si è depositata sul fondo della caldera, a parte alcuni pezzetti di impasto che galleggiano vicino al bordo. Allora Erica si piega sulla schiena, immerge le braccia nel liquido e amalgama la pasta di formaggio; prende il telo di lino e lo inserisce in fondo alla caldera, avvolgendo l’impasto per formare una grossa palla che, pregna di siero, deve essere prima scolata.
Dopo, con uno strappo deciso delle braccia, alza il telo e lo sposta sul tavolo spersoio, facendo cadere l’impasto all’interno delle fascere tonde che danno la forma allo Storico Ribelle. Con i palmi delle mani comprime la pasta di formaggio per uniformarla, mentre il siero continua a fuoriuscire e scorre sulla tavola per finire in un secchio ai nostri piedi; da ultimo, stringe la fascera e copre il formaggio con un’asse in legno e un sasso a fare peso, lasciandogli il tempo di spurgare ancora.
Per ora la forma resta qui in casera e solo più tardi Manu la porterà in cantina, vicino a quelle fresche; lì riposerà due giorni prima di essere messa nella vasca della salamoia e, dopo altri due giorni, stagionerà insieme alle altre.

Formaggi lavorati da poche ore

La ricotta fresca assaggiata a pranzo era ottima. La smaltisco salendo anche oggi pomeriggio al bivacco Piazza, dove per un paio d’ore mi rilasso al sole a leggere il libro I ribelli del bitto, scritto da Michele Corti e pubblicato da Slow Food, con il resoconto delle vicende del formaggio bitto che, da quasi un ventennio, sono protagoniste delle cronache valtellinesi e nazionali, e che hanno consolidato l’immagine di questo gruppo di produttori testardi e coraggiosi, custodi di una tradizione casearia di gran valore come quella delle Valli del Bitto.
Nelle pagine del libro ritrovo le pratiche, la storia e i nomi dei produttori citati da Erica nei suoi racconti, oltre alle tante dispute che hanno riguardato lo Storico Ribelle e il Bitto DOP, non sempre di facile comprensione.
Leggo fino a metà pomeriggio, quando inizia a piovigginare; mi riparo sotto il tetto del bivacco e poi, nelle narici l’odore di terra umida, faccio ritorno all’alpe. Ho l’animo felice per l’esperienza che sto vivendo e ho i pensieri pieni di ammirazione per questi pastori e casari, guidati da organizzazioni sane di principi come il Consorzio di Tutela del Bitto Storico Ribelle e Slow Food, che resistono ben oltre le normali difficoltà per proteggere una piccola produzione dalle tentazioni del modello industriale.
Quando arrivo all’alpe, Manu è immobile sulla soglia della porta di cucina, i piedi incrociati. Fuma una sigaretta, guarda il cielo, si gratta la barba e aspetta che le nuvole grigie si allontanino dal pascolo; poco dopo, convinto che non pioverà più, decide che si può andare a mungere.
Io resto in cucina a prendere appunti e a sistemare le fotografie scattate in casera con il cellulare, ma presto vengo interrotto da urla, bestemmie e dall’abbaiare di uno dei cani rimasto a farmi compagnia.
Esco a vedere che cosa succede: un pastore sta risalendo il sentiero e, con un bastone a mezz’aria, sprona le mucche highlander a darsi una mossa. L’uomo si rivolge in malo modo a Manu, che gli va incontro con la sua solita flemma, dicendo che quelle stupide bestie sono arrivate fin giù al suo alpeggio, l’Alpe Tagliata.
“Non ti sei accorto che erano scappate?” chiede in dialetto condendo la domanda con imprecazioni colorite. “Hanno passato il filo, hanno spaventato le mie vacche, hanno rovinato il pascolo!” dice senza lasciare il tempo di ribattere a Manu.
“Ah, ma adesso ci penso io” continua, “alzo la corrente nel filo e se domani le vedo ancora gli spacco la testa con un sasso, così poi si ricordano di non avvicinarsi più al mio pascolo. Ho capito che non sono tue” aggiunge abbassando la voce, come se qualcuno lo possa sentire, “però devi curarle di più e il padrone invece di lasciarle a te dovrebbe tenersele in stalla giù a valle, che non servono a niente ‘ste vacche qua, sono solo di moda, ma guarda che tutte le bestie vanno curate come si deve…”

Toro di razza highlander

Una volta tornata la quiete, divertito dalla situazione e imitando le imprecazioni del pastore, rientro in cucina, dove inizio a sentire freddo.
Le montagne hanno lasciato l’alpe in ombra, perciò decido di accendere il camino. I ramoscelli e le schegge di legno prendono subito fuoco, e lo stesso fanno i due ciocchi che ci appoggio sopra. Per scaldare le mani, con un pezzo di legno raduno attorno alla fiamma la cenere di ciò che è bruciato nei giorni scorsi, compreso carta e plastica dato che i rifiuti da portare a valle devono essere ridotti al minimo.
Mi rimetto a scrivere appunti, aspetto il calare della sera e il rientro di Manu ed Erica. Tra poco dovrebbe tornare anche Martina, che questa mattina, finita la munigitura, è scesa a Talamona per andare dal dentista. Con sé, oltre al cane, ha portato i caprini a forma di cuore da vendere in un negozio di alimentari di Rasura.
Chissà se, chi li mangerà, immagina almeno in parte quello che accade quassù.

CONTINUA…

(Le immagini che accompagnano il post sono mie e sono state scattate in val Gerola)

Camino nel locale cucina

Leggi anche i post precedenti:
2 Sapore d’alpeggio. Diario dalle Valli del Bitto
1 Alla rovescia. Diario dalle Valli del Bitto
Diario dalle Valli del Bitto