14. Ricordare. Diario da una vigna

6 Novembre 2021

Giovedì 28 ottobre 2021

Una canzone pop suonata ad alto volume sovrasta il rumore del trattore guidato da Christian che, tra le frazioni di Roncaiola e Baruffini, imbocca una vecchia mulattiera tra i vigneti.
A quanto pare, l’ultimo giorno di vendemmia è il più spensierato e la fatica si fa sentire un po’ meno. Non solo perché entro sera gli ultimi grappoli di Nebbiolo delle vigne di Plozza prenderanno la via della cantina, ma soprattutto perché da domani la squadra operai avrà qualche giorno libero per rifiatare.
Così, mentre una decina di uomini e donne taglia i grappoli di uva facendoli cadere nei cestelli – alcuni grappoli sono gettati a terra o lasciati sui rami, gli acini ancora immaturi o già appassiti – i portatori vanno su e giù dai gradini dei terrazzamenti e riempiono le brente, sistemate in una lunga fila nello spiazzo della mulattiera dove Christian parcheggia il trattore e spegne la radio.

Parte del raccolto nell’ultima mattina di vendemmia

Sul cassone del trattore ci sono due grossi contenitori verdi ed è qui che finisce l’uva vendemmiata prima di essere portata in cantina, a Tirano, dove i grappoli vengono immediatamente lavorati da Bruno e Luca – il responsabile della casa vinicola e l’enologo – che in queste settimane hanno seguito da vicino le fasi del conferimento e di trasformazione dell’uva.
Tra queste fasi, quasi tutte fatte meccanicamente, la prima è dividere i raspi dagli acini, dai quali dopo la pigiatura si ottiene il mosto che sviluppa la sua gradazione alcolica in circa quindici giorni di fermentazione; terminata poi la torchiatura, ossia il procedimento per dividere il liquido dell’uva dalle sue bucce, inizia il lungo percorso di nascita del vino.

Il liquido dell’uva e le vinacce dopo la torchiatura

Tuttavia, come ormai ben sapete, molto prima della bottiglia c’è il lavoro poco visibile e poco valorizzato delle persone che lavorano la vigna in ogni stagione – in quella mezzacosta così vicina ma allo stesso tempo così lontana dal fondovalle – e senza le quali i nostri calici resterebbero vuoti. E ogni persona, oltre alla mansioni che svolge tra i filari, ha la sua storia da raccontare, come ho cercato di fare nelle puntate di questo mio Diario da una vigna.
Un diario lungo quasi un anno che, appunto, non si è soffermato sul vino in sé, bensì su due aspetti meno divulgati e che mi premeva mettere in luce: le fasi del ciclo di crescita della vite e, specialmente, le storie personali – a volte semplici anche se mai banali, altre volte drammatiche anche se dense di speranza – di chi ogni giorno si prende cura dei vigneti, nel caso della Valtellina l’attività agricola alla base della sua storia secolare e della sua economia presente.

20-25 chili: tanto può pesare la brenta piena d’uva

Allora oggi, come avevo programmato, mi resta da ascoltare solo la storia di Chaka, un uomo di quarantatré anni sorridente e pronto alla battuta, capace di ricostruire la sua vita in Valtellina.
Lasciata nel 2009 la Costa d’Avorio a causa di una guerra che incombeva nel Paese o, sarebbe meglio dire, obbligato dai suoi familiari ad andare a lavorare all’estero per guadagnare i soldi necessari al loro sostentamento, Chaka è stato prima in Mali e poco dopo in Libia, dove ha trovato lavoro e una stabilità inaspettata.
“Lì, per quasi due anni, sono stato bene” mi racconta con il viso illuminato da un caldo sole autunnale e da una sincerità che mi sembra genuina. “Avevo tutto quello che mi serviva, riuscivo a vivere decentemente e a mandare denaro a casa.”
Poi, di punto in bianco, con la guerra civile scoppiata anche in Libia a inizio 2011 e la rivolta contro Gheddafi, alcuni migranti tra cui Chaka sono stati costretti loro malgrado a lasciare il Paese.
“Un giorno i soldati mi hanno preso il passaporto e il cellulare e, dopo due settimane di prigionia, insieme ad altre centinaia di persone mi hanno caricato su un pullman e portato in Tunisia. Quando sono sceso, davanti agli occhi avevo il mare e nient’altro. È arrivato un barcone, mi hanno spinto sopra e sono partito. Ho visto alcuni provare a scappare, altri rimanere sulla sabbia dopo uno sparo. Non sapevo dove mi trovavo né dove ero diretto.”
Mentre ricorda quei momenti, Chaka fissa i sassolini sul terreno e le foglie della vite, quasi a chiedersi se tutto quello che è successo è capitato davvero a lui e se si può trovare un senso alle cose che accadono agli uomini in certe parti del mondo.
“Abbiamo navigato per due giorni e una notte. Una ragazza giovanissima ha partorito vicino a me, intanto che due uomini sistemavano il motore della barca, fermo per un guasto. Poi, verso sera, abbiamo sentito il rumore di un elicottero e dopo qualche ora un’altra barca ci ha trainati fino alla terra ferma. Le persone che ci hanno aiutato parlavano italiano, ma io non lo sapevo perché ancora non conoscevo la lingua. Solo più tardi ho saputo che il luogo in cui avevo messo piede in quel giorno di aprile del 2011 era Lampedusa.”

Chaka, ivoriano, è arrivato in Italia nel 2011

Dall’isola siciliana, Chaka è stato trasferito a Bari in un centro di accoglienza e infine a Sondrio, dove ha impiegato alcune settimane per riprendersi da uno stato di impotenza e spaesamento misto a depressione, ovviamente dovuto a ciò che gli era capitato.
“Io non volevo venire in Europa” sorride amaro e ancora incredulo. “Stavo bene in Libia. Avevo trovato ciò che mi serviva per aiutare la mia famiglia, non chiedevo altro. Quando sono arrivato in Italia non sapevo che cosa pensare, che cosa fare. Ero confuso e non avevo la forza di ricominciare da capo un’altra volta; credevo di non meritarlo. Poi, per fortuna, passati i primi brutti momenti ho reagito e mi sono dato da fare.”
In Valtellina, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, Chaka ha trovato lavoro come verniciatore in una ditta di Delebio e, dopo cinque anni, è stato assunto da Plozza. Nel frattempo, ha tentato di mettersi alle spalle non solo il cambio di vita imposto da situazioni internazionali politiche e belliche, ma anche i lutti personali: la ragazza con cui era fidanzato in Africa, morta giovane per una malattia e da cui aveva avuto una figlia, oggi adulta e madre di due bambine; il fratello maggiore rimasto ucciso durante la guerra civile in Costa d’Avorio.
Ma nonostante le difficoltà e i drammi da superare, come la vite che ogni autunno dopo la potatura rinasce e torna a dare un’altra volta uno scopo alla propria esistenza, anche Chaka ha ripreso a vivere, a nutrirsi del sole, a sviluppare rami robusti, a proteggere i germogli e a dare buoni frutti: nel suo caso, un lavoro fisso, una donna con cui condividere la vita a Sondrio e una bambina un po’ africana e un po’ italiana da crescere e amare.
Il tutto senza mai dimenticare la propria terra e le proprie origini, così come facciamo noi valtellinesi con l’uva e il vino che da secoli scandiscono lo scorrere delle nostre vite; come però, allo stesso modo, dovremmo fare con gli uomini e le donne autoctone o di etnia diversa che stanno lassù ogni giorno, nel silenzio della mezzacosta, a prendersi cura delle vigne di questo angolo di Alpi.

FINE

(Le fotografie che accompagnano il post sono state scattate nei vigneti di Tirano)

Vecchie botti per l’affinamento del vino

Leggi anche i post precedenti:
13 Brenta. Diario da una vigna
12 Sforzato. Diario da una vigna
11 Serenità. Diario da una vigna
10 Colori. Diario da una vigna
9 Cimatura. Diario di una vigna
8 Cambiamenti. Diario da una vigna
7 Legare. Diario da una vigna
6 Bagnare. Diario da una vigna
5 Cantina. Diario da una vigna
4 Attesa. Diario da una vigna
3 Lontananza. Diario da una vigna
2 Sole. Diario da una vigna
1 Rinascita. Diario da una vigna
Diario da una vigna